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Lo smantellamento dell’Inflation Reduction Act (IRA) e la perdita di competitività con la Cina


Il ritorno di Trump alla presidenza segna un momento di crisi per l’industria statunitense delle rinnovabili. Le politiche della nuova Amministrazione rischiano seriamente di mettere in ginocchio questa filiera e di aumentare il gap tecnologico con la Cina. 

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In un mondo che negli ultimi anni è stato caratterizzato dallo scoppio di guerre e della crisi pandemica, le politiche di transizione energetica non si sono mai arrestate, dimostrando al contrario notevoli progressi. Un attore in particolare si è contraddistinto per la sua centralità nella manifattura e nell’innovazione delle clean tech: la Cina. La presa in atto dei Paesi coinvolti nei processi di transizione della loro crescente dipendenza dal gigante asiatico li ha portati nel corso degli ultimi anni ad attuare politiche nazionali atte a sviluppare capacità domestiche in grado di ridurre la dipendenza da Pechino. Gli Stati Uniti, in primis, hanno varato grandi piani di investimento volti a rivitalizzare e riportare l’industria green all’interno del Paese, ma tutto ciò rischia adesso di essere messo in crisi dalle decisioni della seconda amministrazione Trump.

“We will drill, baby drill”

Il 20 gennaio scorso, nel Day back di Donald Trump alla Casa Bianca, il rieletto Presidente ha firmato una serie di ordini esecutivi inerenti alla politica climatica ed energetica, annunciando lo stato di emergenza energetica nazionale. Senza troppi giri di parole si è accusata l’amministrazione Biden di aver causato, con le sue politiche green, una crescita dei prezzi dell’energia, provocando la perdita diffusa di benessere nella società statunitense ed aver esposto alle mire di potenze straniere il sistema energetico nazionale. 

Le critiche contro la transizione energetica e climatica sono da tempo una carta utilizzata dalla destra repubblicana. Già nel corso del suo primo mandato, Trump si era fatto il portabandiera di una politica fortemente contraria all’avanzamento degli impegni climatici internazionali e al graduale abbandono di fonti energetiche fossili. Appellandosi all’emergenza energetica il Presidente sta riportando in auge le politiche di cui si era fatto promotore durante il suo primo mandato e non sorprende che miri (nuovamente) ad uscire dagli accordi sul clima di Parigi. La nuova amministrazione Trump si è posta l’obiettivo di dare respiro alla società e alle industrie statunitensi ridando centralità ai fossili, in modo da tagliare i prezzi dell’energia e dell’elettricità entro i 18 mesi dal suo insediamento. 

Tuttavia, le accuse rivolte all’Amministrazione precedente, volte a giustificare la politica energetica odierna, appaiono viziate fin dal principio. Sebbene Biden si fosse fatto promotore del passaggio alle rinnovabili, fu durante il suo mandato che le produzioni domestiche di gas e petrolio raggiunsero il picco, contribuendo nel corso del 2024 ad abbassare e stabilizzare i prezzi medi dell’energia rispetto a quelli dell’anno precedente. Il motivo di questo abbassamento e stabilizzazione dei prezzi non è da imputare unicamente ai prezzi accessibili del fossile (gas naturale in primis), ma anche, e soprattutto, all’espansione della filiera delle rinnovabili e alla loro competitività rispetto ai costi del fossile. 

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Alla luce di ciò, l’attuale Amministrazione sta facendo il possibile per proteggere e sostenere i settori del fossile a detrimento di quelli rinnovabili, giustificando il proprio operato come una scelta di buonsenso che vada a contrastare le follie dell’ideologia green. Per esempio, l’amministrazione Trump ha iniziato a rimuovere gli standard ambientali e di controllo delle emissioni posti per incentivare l’acquisto di auto elettriche, in modo tale da rendere più accessibili le macchine a combustione interna, e ad imporre restrizioni ai progetti eolici offshore e onshore, congelandone i fondi stanziati sotto Amministrazione precedente. Non a caso queste scelte politiche hanno già incontrato il plauso di vari esponenti dei settori del fossile, dimostrando il forte supporto verso tali azioni. 

Ciò aggiunge un’ulteriore lente per l’interpretazione delle recenti scelte in politica estera. Il rifiuto della proposta europea di eliminazione dei dazi reciproci e la successiva controproposta di Trump di acquistare  $350 miliardi  di energia (fossile) statunitense per la fine della guerra commerciale non sarebbe solo volta a vincolare la sicurezza energetica europea a quella statunitense, ma permetterebbe un espansione del mercato per le industrie del fossile statunitense.

L’IRA la Cina e la competizione tecnologica

La crescente competitività delle tecnologie rinnovabili e delle loro installazioni tra 2022 e 2024 nel mercato statunitense è largamente da imputare all’Inflation Reduction Act (IRA), varato dall’amministrazione Biden. L’IRA, considerato ad oggi la legislazione più impattante nella politica ambientale statunitense, perseguiva due obiettivi principali: rivitalizzare il settore manifatturiero statunitense ed incentivare la transizione energetica del paese. Questo piano ha portato più di $115 miliardi di investimenti da parte dei privati nella manifattura di batterie, veicoli elettrici, solare ed eolico. Il 2024 è stato un anno record per l’implementazione delle tecnologie pulite negli Stati Uniti, che ha visto eolico e solare produrre il 17% dell’elettricità domestica, superando per la prima volta la generazione a base di carbone. Inoltre, la capacità di accumulo delle batterie su scala industriale è aumentata del 66% e le vendite di veicoli elettrici sono aumentate di oltre il 7%, raggiungendo il record di 1,3 milioni veicoli venduti.

L’IRA era strettamente legato alla competizione tecnologica con la Cina. Pechino è ormai da anni il leader globale nella manifattura, nell’installazione e nell’innovazione delle nuove clean tech e dei settori ad esse collegate. Questo primato si deve a una ventennale storia di politiche industriali e piani quinquennali iniziati nei primi anni 2000, che hanno portato al fiorire delle industrie rinnovabili e a basse emissioni grazie a grandi piani d’investimento e sussidi. Ciò ha portato il Dragone a diversificare il proprio energy mix, che, sebbene sia ancora largamente dipendente dai combustibili fossili (carbone in primis), sta rapidamente aumentando la dipendenza da fonti rinnovabili

Sebbene Pechino detenga il primato in innovazione e manifattura di industrie come quella fotovoltaica, questo non significa che la sua egemonia nel settore delle clean tech sia inscalfibile. Il predominio nei settori legati all’automotive elettrico e delle batterie è ancora in discussione ed i mercati ad essi collegati non sono ancora definiti, ma in una fase iniziale di sviluppo. In questi ed altri settori, tramite politiche di sviluppo industriale, vi è ancora l’opportunità di  rivaleggiare con le produzioni cinesi e impedirne il monopolio. 

Pertanto, l’IRA, cercando di emulare le politiche cinesi, ha avviato politiche di sussidio volte all’abbattimento dei costi per le corporations che avrebbero scelto di sviluppare clean tech sul suolo statunitense e ad incentivare i privati ad investire in questi settori. Secondo un rapporto del Clean Investment Monitor (CIM), che monitora i finanziamenti pubblici e privati ​​nei settori rinnovabili negli USA, l‘Inflation Reduction Act ha portato i settori in questione a concentrare oltre la metà della crescita totale degli investimenti privati ​​statunitensi. La crescita più rapida si è verificata nella produzione di energia pulita e nelle tecnologie destinate al settore dei trasporti, che hanno totalizzato 89 miliardi di dollari nei due anni successivi all’approvazione dell’IRA – un finanziamento quattro volte più grande dei 22 miliardi investiti nella legge di contrasto al cambiamento climatico varata dall’amministrazione Biden nel 2022.

Inoltre, l’IRA ha portato benefici in maniera bipartisan nella società e nella politica statunitense, in modo significativo negli stati a guida repubblicana, nei quali si sono concentrati quasi il 80% dei progetti manifatturieri. Non solo, ciò ha anche migliorato l’occupazione: a livello nazionale sono stati creati oltre 400.000 nuovi posti di lavoro nel settore dell’energia pulita. Nella sola Georgia, per esempio, sono stati creati oltre 43.000 posti di lavoro nei settori relativi alle green tech e oltre 30 miliardi di dollari sono stati investiti nelle rinnovabili dall’approvazione dell’IRA. 

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La guerra dei dazi

Sebbene i recenti dazi imposti alla Cina andranno pesantemente a impattare sulla filiera delle clean tech statunitensi, questi si collocano in continuazione con le politiche varate dalle precedenti amministrazioni. Già dal 2011 l’amministrazione Obama aveva imposto dei dazi a Pechino per proteggere la filiera del rinnovabile dalla minaccia del fotovoltaico cinese, producendo scarsi risultati a fronte della costante perdita di porzioni di mercato per le imprese statunitensi. Tuttavia, le nuove misure sono destinate a rendere ancora più difficile il dispiegamento di tecnologie rinnovabili e a riportare in patria le catene della manifattura, dato che saranno applicate anche su settori necessari al settore clean: quali cemento, componenti di costruzione, componentistica elettronica, acciaio e alluminio. Infatti, gli Stati Uniti non sono solo dipendenti dalla Cina per l’importazione dei prodotti finiti, ma anche per la componentistica necessaria alla produzione domestica di questi. A ciò si aggiunge l’ostilità dell’attuale Amministrazione verso le filiere del rinnovabile. Al sorgere delle tariffe, il settore delle energie pulite non verrà supportato da alcuna politica domestica dato il congelamento dei finanziamenti dell’IRA e la minaccia che gli incentivi di tassazione per la produzione e l’acquisto di clean tech vengano presto ritirati. Ciò spingerà molti a portare i loro investimenti verso settori non così fortemente osteggiati dalla politica nazionale.

Inoltre, non solo i produttori statunitensi dovranno fronteggiare costi di produzione più alti e un ambiente politico domestico sostanzialmente ostile, ma anche la rappresaglia cinese. Al sorgere dei dazi, Pechino ha repentinamente reagito mettendone a propria volta e imponendo un blocco parziale all’export di terre rare e di speciali magneti ad esse collegate (di cui la Pechino detiene un monopolio pressoché totale), la cui esportazione verso il mercato statunitense sarà sottoposta al possesso di una licenza speciale rilasciata dalle autorità. Data la centralità di questi metalli nelle produzioni di batterie e motori elettrici, il blocco impatterà particolarmente sulla capacità statunitense di sostenere le filiere dell’automotive elettrico e di produzioni strategicamente rilevanti: come quelle di droni, robot, missili e navicelle spaziali. In tal modo, il rischio è che non solo tra i due Paesi si accentui ulteriormente il gap tecnologico a sfavore degli Stati Uniti, ma che questi ultimi si ritrovino incapaci di reperire materiali e componentistica necessari per produzioni strategiche.  

Il rischio principale per gli Stati Uniti è di rimanere indietro rispetto al resto del mondo, rendendo più difficile e costoso sia sviluppare e produrre clean tech domesticamente sia accedere (a prezzi contenuti) alle produzioni cinesi. L’ostilità verso la transizione energetica andrà a detrimento unicamente dell’economia statunitense, che non solo assisterà a una probabile crescita dei costi energetici, ma vedrà anche gli investitori stranieri spostarsi verso economie più redditizie. Ciò andrà generalmente a beneficio di Pechino. Sebbene la Cina dovrà trovare nuovi mercati dove sfogare le proprie produzioni, la domanda dei beni in questione è in costante crescita e non si limita solo ai Paesi del Nord Globale, ma anche del Sud Globale. In tal modo, Pechino, oltre a vedere il graduale indebolimento di uno dei principali competitor nell’innovazione e produzione delle clean tech, potrà utilizzare l’ostilità del governo statunitense verso la transizione verde per presentarsi come l’unica superpotenza veramente responsabile, intenzionata a portare avanti la transizione a livello globale e in grado di fornire a un prezzo accessibile prodotti all’avanguardia e a basse emissioni ai Paesi desiderosi ad intraprendere la transizione domesticamente. 





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