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Sussidi ambientalmente dannosi: cosa sono e quanto costano


Ogni anno lo Stato italiano spende miliardi di euro in misure che, direttamente o indirettamente, incentivano attività con impatti negativi per l’ambiente, i cosiddetti “sussidi ambientalmente dannosi” (SAD). I SAD sono un nodo strutturale nella politica economica del nostro Paese e rappresentano un ostacolo alla transizione ecologica.

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Cosa sono esattamente questi sussidi? Perché esistono? È possibile riformarli? Come?

Cosa sono i sussidi ambientalmente dannosi?

L’Organizzazione Mondiale del Commercio definisce come “sussidio” qualsiasi trasferimento di natura finanziaria da parte di un’autorità pubblica a favore di un soggetto privato. I sussidi possono essere: trasferimenti diretti, agevolazioni fiscali, fornitura di beni o servizi a condizioni favorevoli, o anche di forme di sostegno ai prezzi o ai redditi.

Organismi internazionali come OCSE e Fondo Monetario Internazionale (FMI) hanno sviluppato metodi leggermente diversi per identificare i SAD. Seppur le definizioni sono molteplici, convergono su un punto: i SAD sono aiuti economici che cambiano il modo in cui i prezzi finali riflettono i costi reali e che vengono elargiti a favore di attività inquinanti.

Ad esempio, secondo l’OCSE, un sussidio dannoso per l’ambiente è qualsiasi misura che favorisce un aumento dei livelli di produzione attraverso un incremento di attività nocive per l’ambiente, rispetto a uno scenario in cui tale sussidio non interviene. Tra queste: un maggior sfruttamento di risorse naturali, l’aumento dei rifiuti o un aumento dell’inquinamento. Il FMI, invece, opera un’ulteriore distinzione tra sussidi espliciti (trasferimenti pubblici e misure che rendono il prezzo al dettaglio inferiore al costo di approvvigionamento del combustibile) e impliciti (ovvero l’assenza di una tassazione adeguata di esternalità negative, quali danni climatici e ambientali, danni sanitari, esternalità legate alla mobilità come la congestione stradale e gli incidenti).

In Italia, una prima mappatura dei SAD è stata avviata nel 2015 dal Ministero dell’Ambiente (oggi MASE). Ogni anno, il MASE è tenuto a pubblicare un Catalogo dei Sussidi Ambientalmente Dannosi e dei Sussidi Ambientalmente Favorevoli (SAF). Il Catalogo è uno strumento essenziale per capire dove finiscono le risorse pubbliche e con quali effetti ambientali. Il Catalogo opera una distinzione tra SAD e SAF diretti (trasferimenti di diretti di risorse pubbliche) e indiretti (agevolazioni fiscali e differente trattamento fiscale di prodotti simili).

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Il peso dei SAD sulle finanze pubbliche italiane

Secondo l’ultimo Catalogo pubblicato dal MASE, relativo a dati del 2022, in Italia sono stati spesi oltre 24 miliardi di euro in SAD, di cui 17 miliardi a supporto di combustibili fossili.

Il dato relativo ai SAD rappresenta un aumento del 15% rispetto al 2021, in parte a causa delle misure adottate a seguito del conflitto russo-ucraino. Nello stesso periodo, i SAF sono aumentati soltanto del 2,5%. Questo evidenzia come, in un momento di crisi geopolitica ed energetica, anziché investire nella propria sicurezza e indipendenza energetica attraverso investimenti in rinnovabili, l’Italia ha sussidiato fonti di energia fossile importate, incrementando la propria dipendenza da paesi terzi.

La stima del MASE è conservativa. Infatti, in base alla definizione di SAD e alla metodologia di calcolo utilizzati, le cifre possono variare significativamente. Secondo il FMI, se si includono i sussidi impliciti (i.e., la tassazione inadeguata di esternalità negative di una data attività), la cifra spesa in SAD dall’Italia nel 2022 salirebbe a 63 miliardi di euro, pari al 2,8% del PIL nazionale. Legambiente stima che nel 2023 si sarebbero raggiunti addirittura i 78,7 miliardi di euro in SAD in Italia, di cui circa 26 miliardi potrebbero essere eliminati subito, con impatti ridotti da un punto di vista sociale.

Nella sua analisi dei SAD e dei SAF, il MASE opera una suddivisione per categorie, da cui risulta che quasi la metà dei SAD nel 2022 è stata destinata al settore dell’energia.

Da questi numeri emerge che lo Stato italiano sostiene economicamente modelli produttivi e di consumo incompatibili con gli obiettivi climatici, di sicurezza e indipendenza energetica, riducendo significativamente lo spazio fiscale – già limitato – di cui dispone.

Cosa rientra (e cosa no) tra i sussidi ambientalmente dannosi

Non tutti i sussidi che riguardano fonti fossili o settori inquinanti sono automaticamente classificati come ambientalmente dannosi. La valutazione è complessa e dipende dal contesto, dall’uso e dall’effetto della misura: per tali motivi il MASE chiarisce che il Catalogo non è esaustivo.

In particolare, il Catalogo non include sistematicamente i sussidi che definisce “impliciti”, ovvero quelle agevolazioni che risultano dalla differente tassazione di prodotti simili e che possono favorire l’adozione di soluzioni più o meno inquinanti (la definizione di sussidio implicito del MASE è diversa da quella del FMI).

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Il differente trattamento fiscale tra gasolio e benzina è enumerato tra i SAD e ammonta, nell’ultima versione del Catalogo, a 3,157 miliardi di euro. Di recente, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 43/2025, che prevede l’allineamento graduale, nei prossimi cinque anni, delle accise sul gasolio (attualmente più basse) a quelle sulla benzina, misura che va proprio nella direzione di correggere un SAD strutturale. Le maggiori entrate che risulteranno da questo allineamento andranno al fondo relativo al trasporto pubblico locale e a quello per l’attuazione della delega fiscale previsto dal decreto legislativo.

Ci sono però altri sussidi impliciti che non sono ufficialmente classificati come SAD, anche se di fatto lo sono nei loro effetti. Un esempio rilevante è il differenziale tra oneri fiscali e parafiscali gravanti su elettricità e combustibili fossili. In Italia, infatti, l’elettricità è gravata da tassazione, oneri di sistema e incidenza delle quote di emissione ai sensi dell’Emission Trading System europeo più alti rispetto al gas, al gasolio o alla benzina. Questo squilibrio si traduce in costi più alti per soluzioni elettriche e scoraggia l’elettrificazione dei consumi nei settori residenziale, industriale e dei trasporti – un passaggio cruciale per ridurre le emissioni climalteranti. Nonostante ciò, il differenziale non compare nel Catalogo ufficiale tra i SAD, evidenziando un limite dell’attuale metodologia di classificazione.

La mancanza di una definizione giuridica chiara e vincolante dei SAD, a livello nazionale ma soprattutto europeo, rende difficile individuarli – che è il primo passaggio necessario verso la loro eliminazione e riforma.

Come si possono riformare i SAD?

L’Italia si è impegnata a riformare i SAD in sedi internazionali (Agenda 2030, G7 e G20, COP, l’ottavo programma d’azione per l’ambiente europeo) e nazionali. Il PNRR prevede una riduzione dei SAD di 2 miliardi di euro entro il 2026 e di 3,5 miliardi di euro entro il 2030. Tali obiettivi vengono ripresi nel Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine per il 2025-2029, che sottolinea come il recupero di queste risorse sia rilevante per ridurre la perdita di gettito dovuta a detrazioni fiscali dannose per l’ambiente.

Nonostante il Catalogo debba essere aggiornato ogni anno, ad oggi manca una strategia operativa globale per la riforma. Il PNIEC, strumento primario per proporre una strategia d’uscita dai SAD, si limita a elencare una serie di SAD “inefficienti” per un totale inferiore a 2 miliardi di euro, senza delineare una metodologia di identificazione sistematica dei SAD e dell’impatto socioeconomico di una loro possibile eliminazione, né un percorso di medio e lungo termine per riformarli.

Riformare i SAD è necessario e possibile, ma serve:

  • Un piano organico: la riforma dei SAD non può essere scollegata dal resto delle politiche economiche e fiscali e va inserita in un pacchetto più ampio, che includa misure di sostegno alla decarbonizzazione e strumenti per proteggere le fasce più vulnerabili. Non tutti i SAD possono sparire subito: alcuni possono essere mantenuti temporaneamente, a patto che esista un piano di riforma coerente con gli obiettivi climatici e che abbiano una data di scadenza chiara.
  • Valutare costi e benefici: per capire l’impatto economico, ambientale e sociale di una loro eventuale rimozione. I sussidi generici e non mirati andrebbero eliminati per primi; quelli basati sul reddito o sulla vulnerabilità dei beneficiari, più lentamente e con maggior cautela. Allo stesso tempo, vanno previste misure alternative per favorire la transizione, che siano fiscalmente sostenibili sul medio e lungo periodo.
  • No-regret, prima di tutto: il primo passo è identificare i sussidi più facili da eliminare, quelli che costano tanto e aiutano pochi, o quelli che sono regressivi, cioè avvantaggiano soprattutto le imprese più grandi e i redditi più alti. In parallelo, si può agire sui settori dove esistono già alternative a basse emissioni. Dove invece queste alternative mancano, o dove l’eliminazione di un SAD avrebbe impatti sociali particolarmente negativi, è necessario un approccio più graduale e mirato (ma sempre allineato agli obiettivi di decarbonizzazione).
  • Un processo partecipato: la riforma dei SAD deve coinvolgere tutte le parti in causa: lavoratori, imprese, amministrazioni, cittadini. Un dialogo sociale ampio e ben strutturato serve a costruire consenso e ridurre resistenze.

Foto di Kasia Derenda

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